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giovedì 19 dicembre 2013

Quanto è il risarcimento del danno per una morte sul lavoro?

La situazione teorica è molto complessa in quanto ad esempio vanno distinti i danni che sono propri del morto (ad esempio la sua sofferenza prima di morire) da quelli tipici delle persone che possono ottenere il risarcimento, definiti iure proprio (ad esempio il dolore che un figlio prova per la morte del padre).
Dal punto di vista pratico si può semplificare distinguendo tra danni patrimoniali e danni non patrimoniali.
Supponiamo la morte del padre che lascia un bambino di 14 anni. Considerando la situazione familiare e le caratteristiche del ragazzo si potrebbe presumere che il ragazzo avrebbe potuto frequentare l'Università, con l'aiuto del padre. Quell'aiuto economico si può calcolare e liquidare. 
Sotto un altro aspetto si può calcolare che il padre avrebbe contribuito al mantenimento del figlio fino alla sua autonomia finanziaria (supposta a 26 anni). Considerando una spesa mensile per il figlio di € 500 questa andrebbe moltiplicata per i mesi fino al raggiungimento dell'età di 26 anni, adeguando la cifra secondo le Tabelle di Capitalizzazione Vitalizia.
Per quello che riguarda il danno non patrimoniale vengono praticamente usate delle tabelle elaborate dai vari tribunali. La corte di Cassazione (Cassazione civile , sez. VI, ordinanza 04.01.2013 n° 134) ha ritenuto applicabili in tutta Italia le Tabelle del Tribunale di Milano. Il risarcimento per la morte del coniuge è calcolabile da un minimo di € 163.080,00 ad un massimo di € 326.150,00. 
La cifra concreta viene calcolata considerando le età, la convivenza o meno, ed altri fattori.
In pratica, a mio parere, erano molto migliori le Tabelle del tribunale di Roma che quantificavano esattamente tali coefficienti di adeguamento.
Le Tabelle di Milano sono scaricabili da questo blog.


lunedì 9 dicembre 2013

E se un elettricista ha un infortunio mortale a casa nostra andiamo in galera?


Il decreto legislativo 81 del 2008 ha ampliato le figure responsabili in caso di infortunio sul lavoro. Tra i responsabili ora c'è anche il proprietario dell'immobile dove vengono eseguiti ad esempio dei lavori edili. La sentenza 42465/2010 ha ritenuto che il privato committente di lavori edili nella sua abitazione risponde di omicidio colposo se l'operaio, in assenza di qualsiasi cautela relativa alla sicurezza, muore durante il lavoro. In pratica occorre essere molto vigili quando si chiama un artigiano. Deve essere perfettamente in regola, assicurato, operare con tutte le misure di skicurezza che la legge dispone. Il guaio è che un privato non ha certo la competenza per capire se siano usate tutte le misure di sicurezza previste dalla legge. Può benissimo però rendersi conto di quel minimo di misure che impone la logica come il fatto che si operi sull'impianto elettrico senza staccare la corrente o si usi una scala difettosa e pericolante. In questi casi l'operaio - artigiano va immediatamente bloccato. In casi come questo è comunque fondamentale il buon senso dei magistrati... Che ne pensate?

domenica 8 dicembre 2013

Il datore di lavoro paga se l'errore lo fa un dipendente?

Articolo 2049 del codice civile. I padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti. Questa norma prevede che il datore di lavoro sia responsabile anche quando l'errore che ha portato alla morte del lavoratore (o al suo infortunio) sia stato commesso da un suo dipendente, un caposquadra ad esempio. Si tratta della c.d. responsabilità oggettiva, un essere responsabili anche se non si sa nulla dell'illecito. La norma è effettivamente molto pesante e giustificata solo dalla necessità di tutelare al massimo la sicurezza del lavoro. La Corte di Cassazione ha talvolta stabilito che essa non sussista quando il datore di lavoro ha umanamente fatto tutto il possibile per evitare l'incidente e non poteva nemmeno sorvegliare direttamente come si svolgeva il lavoro.

giovedì 5 dicembre 2013

Il rischio elettivo e la responsabilità del datore di lavoro

Sentenza - Cassazione n. 9649/2012: Rischio elettivo - Infortunio sul lavoro.
Con la sentenza n. 9649 del 13 giugno 2012, la Cassazione in materia di lavoro, ha stabilito che la condotta irresponsabile del lavoratore, nell'utilizzo di un mezzo di servizio, fa venir meno per il diritto al risarcimento del danno in caso di infortunio.
Stiamo parlando del cd. "rischio elettivo", ravvisabile quando l'attività svolta dal lavoratore non sia relazionabile con la prestazione lavorativa o si spinga ben oltre i limiti della stessa, in pratica quando, per un impulso personale, si compie un atto estraneo e illogico rispetto alle finalità produttive e privo di collegamento con l'attività lavorativa. La Corte ricorda inoltre che il rischio elettivo consiste nel modificare arbitrariamente la normale attività lavorativa, assoggettando la prestazione lavorativa ad ulteriori e diversi rischi rispetto a quelli usuali e, per questo diciamo prevedibili o quasi e fa venir meno il nesso causale tra l'atto (sinistro) e colui che doveva adottare tutte le condizioni necessarie affinchè non si verificasse (committente).

Lavori in appalto e responsabilità del committente

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8686 del 31 maggio 2012, ha rilevato che, "in tema di infortuni sul lavoro, l'art. 2087 cod. civ. (...) e l'art. 7 del d.lgs. 19 settembre 1994 n. 626, che disciplina l'affidamento di lavori in appalto all'interno dell'azienda, prevedono l'obbligo per il committente, nella cui disponibilità permane l'ambiente di lavoro, di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità e la salute dei lavoratori, ancorché dipendenti dall'impresa appaltatrice, consistenti nell'informazione adeguata dei singoli lavoratori e non solo del l'appaltatrice, nella predisposizione di tutte le misure necessarie al raggiungimento dello scopo, nella cooperazione con l'appaltatrice per l'attuazione degli strumenti di protezione e prevenzione dei rischi connessi sia al luogo di lavoro sia all'attività appaltata, tanto più se caratterizzata dall'uso di macchinari pericolosi. Pertanto l'omissione di cautele da parte dei lavoratori non è idonea ad escludere il nesso causale rispetto alla condotta colposa del committente che non abbia provveduto all'adozione di tutte le misure di prevenzione rese necessarie dalle condizioni concrete di svolgimento del lavoro, non essendo né imprevedibile né anomala una dimenticanza dei lavoratori nell'adozione di tutte le cautele necessarie, con conseguente esclusione, in tale ipotesi, del ed. rischio elettivo, idoneo ad interrompere il nesso causale ma ravvisabile solo quando l'attività non sia in rapporto con lo svolgimento del lavoro o sia esorbitante dai limiti di esso (Cass. ti. 21694/2011). Con riferimento alla specie, d'altra parte, non è mancalo, come si è visto, l'accertamento del nesso causale tra mancata adozione delle necessarie misure di sicurezza e verificazione dell'infortunio".

La Cassazione si pronuncia in materia di infortunio sul lavoro "in itinere"

Corte di Cassazione - Sentenza n. 21249 del 29 novembre 2012

I giudici della Corte di Cassazione, con la sentenza in oggetto, hanno ricordato che "in tema di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, pur nel regime precedente l'entrata in vigore del D.lgs. n. 38 del 2000, è indennizzabile l'infortunio occorso al lavoratore "in itinere" ove sia derivato da eventi dannosi, anche imprevedibili ed atipici, indipendenti dalla condotta volontaria dell'assicurato, atteso che il rischio inerente il percorso fatto dal lavoratore per recarsi al lavoro è protetto in quanto ricollegabile, pur in modo indiretto, allo svolgimento dell'attività lavorativa, con il solo limite del rischio elettivo".

Denuncia di infortunio all'INAIL = confessione

Nella sentenza n. 8611/2013 la Corte stabilisce che negli infortuni sul lavoro può attribuirsi valenza di confessione stragiudiziale alla denuncia inviata dal datore di lavoro all’Inail per la parte in cui ne descrive sia pur succintamente le modalità.
La Cassazione ha stabilito che “l‘elemento soggettivo della confessione (animus confitendi) si configura come mera volontà e consapevolezza di riconoscere la verità del fatto dichiarato, obiettivamente sfavorevole al dichiarante e favorevole all’altra part
 
e, senza che sia necessaria l’ulteriore consapevolezza di tale obiettiva incidenza e delle conseguenze giuridiche che ne possono derivare”.
Pertanto, “può attribuirsi valenza di confessione stragiudiziale ex art. 2735 Cc ad una denuncia di infortunio sul lavoro effettuata ex art. 53 Dpr n. 1124/65, nella parte in cui ne descrive, sia pur succintamente, le modalità di accadimento e/o ogni altra circostanza di fatto”.

Responsabile il datore di lavoro se i dipendenti NON utilizzano i dispositivi di protezione

La Cassazione in materia di infortuni sul lavoro, con la sentenza n. 9167 del 16 aprile 2013, ha ribadito alcuni importanti principi osservando che "le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l'insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso; ne consegue che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l'imprenditore che abbia provocato un infortunio sul lavoro per violazione delle relative prescrizioni, all'eventuale concorso di colpa del lavoratore; con l'ulteriore conseguenza che l'imprenditore è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità e esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell'atipicità ed eccezionalità, così da porsi come causa esclusiva dell'evento."
La Suprema Corte, ha quindi rappresentato nelle motivazioni della sentenza che "
il datore di lavoro, in caso di violazione delle norme poste a tutela dell'integrità fisica del lavoratore, è interamente responsabile dell'infortunio che ne sia conseguito e non può invocare il concorso di colpa del danneggiato, avendo egli il dovere di proteggere l'incolumità di quest'ultimo nonostante la sua imprudenza o negligenza; ne consegue che, in tutte le ipotesi in cui la condotta del lavoratore dipendente finisca per configurarsi nell'eziologia dell'evento dannoso come una mera modalità dell'iter produttivo del danno, tale condotta, proprio perché "imposta" in ragione della situazione di subordinazione in cui il lavoratore versa, va addebitata al datore di lavoro, il cui comportamento, concretizzantesi invece nella violazione di specifiche norme antinfortunistiche (o di regole di comune prudenza) e nell'ordine di eseguire incombenze lavorative pericolose, funge da unico efficiente fattore causale dell'evento dannoso."

Nel caso in esame non vi era quindi concorso di colpa, bensì responsabilità da addebitare esclusivamente al datore di lavoro.

Danni da sofferenza psichica della vittima prima della morte

Il testo della sentenza n. 17092 dell'8 ottobre 2012 precisa che "in caso di lesione dell'integrità fisica che abbia portato ad esito letale, la vittima, che abbia percepito lucidamente l'approssimarsi della fine, attiva un processo di sofferenza psichica particolarmente intensa che qualifica il danno biologico e ne determina l'entità sulla base non già (e non solo) della durata dell'intervallo tra la lesione e la morte, ma dell'intensità della sofferenza provata".
Il caso che ha dato origine al processo riguardava un lavoratore portuale, deceduto per mesotelioma pleurico.
Gli eredi chiedevano quindi che venisse riconosciuta e dichiarata sia l'origine professionale della malattia, per l'esposizione all'inalazione di fibre di amianto, sia la responsabilità dell'Autorità Portuale  e dell'armatore che aveva trasportato amianto con la conseguente condanna degli stessi al risarcimento, iure hereditario, del danno morale, esistenziale e biologico nelle misure indicate o in quelle diverse di giustizia.
I giudici di legittimità, con riferimento al danno, hanno ricordato che bisogna tenere conto della "sofferenza psichica e morale subita dal danneggiato che ha avuto riguardo alla consapevolezza dell'esito letale della patologia contratta all'interno del danno non patrimoniale (biologico e morale)".
Inoltre, la citata sentenza ha confermato l'esistenza della trasmissibilità agli eredi anche del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale da lesione dell'integrità fisica che abbia poi portato alla morte e la responsabilità dell'Autorità portuale per non aver preso precauzioni atte a proteggere la vita del lavoratore, in quanto all'epoca era conosciuta la pericolosità dell'esposizione all'amianto.
La Cassazione, ha poi chiarito che dal 2011 è previsto un Fondo per le vittime dell'amianto ma che tali erogazioni sono meramente aggiuntive rispetto a quelle del sistema risarcitorio previgente e "non possono escludere alcuno degli altri diritti stabiliti dall'ordinamento per i medesimi soggetti" e che "non si potrà opporre alcuna compensazione né calcolo differenziale tra le prestazioni erogate dal Fondo e il diritto al risarcimento dei danni spettanti alle stesse vittime".

Responsabilità del datore di lavoro per non aver fornito adeguata formazione su uso macchinari pericolosi

La suprema Corte di Cassazione il 22 ottobre 2012 ha emesso la sentenza n. 41191 in cui si precisa questo importante principio di diritto.
  Il datore di lavoro deve tutelare i lavoratori dai possibili infortuni sul lavoro anche e soprattutto quando  i dipendenti devono far funzionare dei macchinari pericolosi.
Questi devono essere adeguatamente formati per poter utilizzare queste pericolose apparecchiature senza correre rischi ulteriori che l'inesperienza o la poca praticità e conoscenza della macchina potrebbero causare. Và inoltre rilevato che l'accesso a questi macchinari deve essere impedito dal datore di lavoro a quei lavoratori sprovvisti dell'idonea formazione e competenza.

Morte sul lavoro: Risarcimento concesso anche a conviventi non parenti della vittima

Cassazione Quarta Sezione Penale, Sentenza n. 43434/2012.
La Suprema Corte di Cassazione ha stabilito il risarcimento dei danni anche in favore del convivente (anche se non familiare o parente stretto) del lavoratore vittima di incidente sul lavoro
Il caso trattato riguardava la costituzione di parte civile di un consorzio familiare che aveva dato ospitalità ad un lavoratore privo del permesso di soggiorno morto nel 2007 per un incidente avvenuto durante il lavoro (l'uomo era infatti precipitato da un'altezza di otto metri).
Per la Cassazione la predetta costituzione di parte civile é del tutto legittima o meglio, con la sentenza n.43434/2012 si é pronunciata direttamente sul riconoscimento sia del risarcimento dei danni in favore dei parenti stretti della vittima ma anche nei confronti della famiglia che aveva accolto l'immigrato.
La Corte ha rigettato i ricorsi proposti dalla Società per cui lavorava l'immigrato e dal responsabile di cantiere della stessa società che erano stati condannati nella fase di merito per omicidio colposo del lavoratore e al pagamento dei danni in favore della madre del lavoratore e alla famiglia che lo ospitava in Italia.
Citando la sentenza: "la risarcibilità del danno subito da persona convivente derivatogli dalla lesione materiale cagionata alla persona con la quale convive dalla condotta illecita del terzo e ha collegato tale danno alla provata turbativa dell'equilibrio affettivo e patrimoniale instaurato mediante una comunanza di vita e di affetti, con vicendevole assistenza morale e materiale".
In conclusione, deve essere riconosciuto il danno e deve essere conseguentemente risarcito ogni volta che "la perdita definitiva di un rapporto di 'affectio familiaris' puo' comportare l'incisione dell'interesse all'integrità morale, ricollegabile all'art. 2 della Costituzione".