Indice dei post

domenica 5 ottobre 2014

Va risarcita la morte del lavoratore al nero?

Nella pratica si può porre il problema del risarcimento del lavoratore che non aveva garanzie assicurative, il lavoratore al "nero".
Si può trattare sia di italiani, sia di stranieri.
A me personalmente è capitato che l'INAIL di Napoli abbia rifiutato di risarcire la morte di un lavoratore agricolo rumeno, sostenendo che non era stato assicurato e quindi non gli spettava nulla.
Questo atteggiamento è illecito.
In linea generale non può infatti non rilevarsi che l'INAIL non è una qualsiasi società assicuratrice privata. 
In questo caso avrebbe senso il non pagare perché, in assenza di un contratto specifico, non ci sarebbe obbligo della società.
L'INAIL , invece, ha la funzione pubblica di tutelare il lavoratore; questa funzione, essendo tutelata costituzionalmente (anzi ben prima della Costituzione... art. 2049 e 2087 del c.c.) ed anche dalla normativa europea, non può certo venire meno in presenza di un comportamento omissivo del datore di lavoro.
Esiste quindi il pieno diritto al risarcimento, salvo sanzioni e rivalsa nei confronti del datore di lavoro inadempiente.
Dal punto di vista normativo questo principio è sancito dall'art. 67 del DPR 1124/1965, per il quale: “gli assicurati hanno diritto alle prestazioni da parte dell'istituto assicuratore anche nel caso in cui il datore di lavoro non abbia adempiuto agli obblighi stabiliti nel presente titolo.” 
Purtroppo può capitare che, soprattutto in caso di lavoratori stranieri, le vittime non sappiano di questo loro diritto, tenendo per buone le speciose argomentazioni di persone poco competenti o addirittura in mala fede.
Ovviamente ed a maggior ragione, lo stesso principio si applica se il datore di lavoro ha assicurato il lavoratore ma non ha versato i relativi contributi.

sabato 31 maggio 2014

Se la vittima non aveva la cintura di sicurezza il risarcimento è minore?

Capita che muoia in un incidente stradale un guidatore che non indossava la cintura di sicurezza.
Questo comportamento in che modo influisce sul risarcimento e sulla condanna penale?
Si è sostenuto che se la vittima avesse avuto la cintura di sicurezza sarebbe sopravvissuta e quindi non spetta il risarcimento e nemmeno ci può essere condanna penale per omicidio colposo.
La Corte di Cassazione, sez. IV penale (sentenza 25138 del  giugno 2013) ha stabilito due principi:
- il primo è che il non portare la cintura non vale di per se' ad escludere la colpa dell'altro conducente nella determinazione dell'evento;
- il secondo è che il portare la cintura è obbligatorio e vale a proteggere conducente e passeggeri. Senza cintura potrebbero essere proiettati con le parti rigide dell'auto o all'esterno, con danni molto più gravi
Il fatto che la vittima non abbia portato la cintura deve quindi essere valutato, caso per caso, per quantificare la percentuale che questo comportamento omissivo e colpevole ha nella determinazione dell'incidente. Questo sia ai fini penali che ai fini della determinazione del risarcimento spettante ai familiari della vittima (concorso di colpa).
Riportiamo qui le parole della Cassazione.
"In tema di omicidio colposo conseguente a sinistro stradale, il mancato uso, da parte della vittima, della cintura di sicurezza non vale di per sé ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del conducente di un'autovettura che, violando ogni regola di prudenza e la specifica norma del rispetto dei limiti di velocità, abbia reso inevitabile l'impatto con altra autovettura sulla quale viaggiava la vittima, e l'evento, non potendo considerarsi abnorme né del tutto imprevedibile il mancato uso delle cinture di sicurezza, il quale può, tuttavia, riflettersi sulla quantificazione della pena e sull'ammontare risarcitorio" (Cass. pen., Sez. IV, n. 42492 del 3 ottobre 2012, Rv. 253737)."

venerdì 30 maggio 2014

Come deve essere il consenso informato per la responsabilità medica?

Prima di operazioni o altri interventi "invadenti" o potenzialmente pericolosi, i sanitari devono chiedere al paziente il consenso. Per avere la prova di questo si fa firmare una apposita dichiarazione. Si tratta del c.d. "consenso informato".
Il problema è che molte volte la dichiarazione è in "legalese" ed il paziente firma senza capirci assolutamente niente.
Tra l'altro si tratta anche di moduli spesso lungi e magari scritti con parti in piccolo.
La Cassazione (sentenza  sez. 3 civile, n. 19220 del 20.8.2013) ha precisato che le modalità di informazione devono essere adeguate al livello culturale del paziente, "con l'adozione di un linguaggio che tenga conto del suo particolare stato soggettivo e del grado delle conoscenze specifiche di cui dispone.
E' una sentenza molto significativa che di fatto distingue tra la dichiarazione che può essere fatta firmare ad un medico ad esempio e tra quella che deve essere fatta firmare ad una casalinga ottantenne.
C'è anche da tenere presente la condizione soggettiva del paziente, in quel particolare momento. 
Facile dire che quanto sopra, nella prassi, passerà quasi inosservato: gli ospedali continueranno a far firmare dei moduli generici prestampati nei quali si continuerà a capire poco. Va anche ammesso che le soluzioni pratiche potrebbero essere complicate a meno che, magari, si registri un colloquio tra i medici ed il paziente nel quale vengano spiegati ad esempio i rischi dell'operazione. Questa soluzione renderebbe più facile dare una informativa specifica, con tutte le caratteristiche chieste dalla sentenza citata.
La Cassazione è arrivata a questa decisione sulla base della sentenza 438/2008 della Corte Costituzionale; per questa il consenso informato deve essere inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario. Se non è chiaro a quale trattamento si va incontro, si viola un diritto fondamentale della persona.
Ai sensi degli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione nessuno può essere sottoposto ad un trattamento sanitario se non per un obbligo di legge (o ovviamente con il suo consenso).
Per fare un esempio, ricordiamo il TSO (trattamento sanitario obbligatorio) cui può essere sottoposto obbligatoriamente un infermo psichico qualora per le sue condizioni ci sia un pericolo concreto di vita.

Ai fini pratici quindi, qualora si verifichi un decesso sospetto, sarà sempre opportuno chiedere subito la copia integrale della cartella clinica, con tutta la documentazione firmata dal paziente.

martedì 27 maggio 2014

Il geometra Dario Testani di Palestrina muore per salvare due operai.

E' accaduto oggi un fatto che ha messo in luce uno dei tanti eroismi di persone comuni.

A Roma ha ceduto il terreno di un cantiere nella zona Aurelia. Due operai, secondo le prime notizie, sono rimasti sepolti. Il geom. Dario Testani di 32 anni è riuscito a salvarli.

Lui però è morto.
I nostri cantieri sono pieni di infamie, di morti che si potevano evitare ma anche di grandi eroismi come questi.
Dario ha lasciato tanto dolore nelle persone che gli sono vicine.
Ha lasciato però anche l'orgoglio di sapere che esistono persone come lui, persone che possono dare fiducia nel futuro, ci possono far sperare che l'infamia delle morti bianche abbia fine.
Spero che la sua famiglia riceva, oltre le parole, anche il giusto risarcimento (ben cosciente che nessuno potrà ridare loro Dario e il suo affetto).
La famiglia ha ricevuto le condoglianze del sindaco di Roma Marino e del presidente della Regione Lazio Zingaretti.
Sono perfettamente convinto che, al di là della buona fede di alcuni, la gran parte della responsabilità per queste morti sia di una classe politica che fa solo parole.

venerdì 18 aprile 2014

Il concetto di dolo eventuale nell'infortunio mortale (in parole semplici).

Rimaniamo particolarmente colpiti quando assistiamo alla morte di una o più persone, magari per un investimento stradale, ed assistiamo poi all'erogazione di condanne che sembrano particolarmente lievi.Altre volte le condanne sono pesanti per avvenimenti simili.Molto deriva dai concetti di dolo, colpa, dolo eventuale.Per l'art. 589 del codice penale: "Chiunque cagiona per colpa [c.p. 43] la morte di una persona è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni. ..."Per l'art. 575 dello stesso codice: "Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno  ...".L'art. 589 si riferisce alla morte causata da una colpa, un errore non scusabile.L'art. 575 alla morte causata volontariamente.Questo spiega la rilevante differenza di pena: nel primo caso la pena minima può essere di sei mesi e massima di cinque anni. Nel secondo caso il minimo è di ventuno anni.Fino a qui tutto bene.La giurisprudenza si è però posta il problema di chi abbia (o debba logicamente avere) ben presente la possibilità della morte altrui e, nonostante questo, agisca in modo pericoloso.Si è ritenuto che in questi casi ci sia un dolo (volontà di uccidere) "eventuale" vale a dire che (pur sapendo che qualcuno può morire) si preferisce continuare il comportamento pericoloso.Un esempio può essere quello della Thyssen Group. I magistrati hanno ritenuto che il possibile verificarsi di incidenti gravi (per la violazione delle norma contro gli infortuni sul lavoro) fosse conosciuto dai dirigenti; nonostante questa conoscenza, si è ritenuto che non avessero adeguato gli impianti per una scelta economica.Altro esempio è quello di chi corra a 100 km orari in città: dovrebbe essere ben chiaro che esiste la concreta possibilità di investire ed uccidere un pedone o di creare gravi incidenti.Quando si riconosce il dolo "eventuale" la condanna non è più per omicidio colposo (art. 589 c.p.) ma diventa per omicidio volontario (art. 575 c.p.).

martedì 4 febbraio 2014

Respinta la richiesta danni di un lavoratore suicida per una malattia professionale


La sentenza 821 del 2013 della Corte di cassazione, sezione lavoro  e le precedenti nel medesimo giudizio, hanno preso in esame un caso molto particolare.
Il lavoratore si era suicidato non sopportando di aver contratto una malattia gravissima. Si fa anche riferimento alla ipotesi di un possibile omicidio invece che suicidio.
I magistrati hanno ritenuto che non fosse stato dimostrato a sufficienza il nesso di casualità tra la morte e l'attività lavorativa.
Detta in altri termini, in astratto è possibile venga riconosciuto l'infortunio sul lavoro quando la morte (intesa come omicidio) è connessa con l'attività svolta.
Supponiamo ad esempio che sia ucciso un poliziotto durante una rapina o un dipendente dell'esattoria da parte di un pazzo che ha sparato contro gli impiegati del suo ufficio.
E' altresì ammissibile, sempre in linea astratta, che anche il suicidio possa essere considerato conseguenza dell'attività lavorativa.
In pratica però occorre una prova sicura e nel secondo caso può essere decisamente difficile darla.

lunedì 20 gennaio 2014

L'INAIL si può far restituire dal datore di lavoro quello che ha pagato?


L'INAIL è un ente assicurativo.

Nel caso in cui abbia risarcito una danno, può farsi rimborsare dal datore di lavoro se esiste una responsabilità di quest'ultimo ai sensi della legge penale.
Se invece esiste solo una responsabilità civile, quello che ha pagato non è rimborsabile.
In questo senso è chiara la sentenza n. 117/2012 del Tribunale di Foggia, sezione lavoro.
Il lavoratore che riceve un risarcimento dall'INAIL, non è però limitato da questo.
Qualora infatti il suo danno sia maggiore potrà agire contro il datore di lavoro responsabile civilmente, per la differenza.
Dati gli importi liquidati normalmente dall'INAIL questo caso è molto comune.